La scelta per il regime forfettario “versione 2019” pone importanti riflessioni rispetto alla eventualità che le Entrate possano in sede di verifica disconoscerne la possibilità di impiego e/o di utilizzo. L’opzione per il regime è subordinata ad alcune condizioni oggettive e soggettive, sulle quali molto si è scritto su queste colonne. Per il 2019, può aderire al regime chi abbia conseguito un ammontare di ricavi o compensi non superiori ai 65mila euro, mentre dal punto di vista soggettivo esistono una serie di esclusioni ricollegabili al passato economico-giuridico del soggetto o connesse al patrimonio dell’aderente. Nei precedenti regimi – così come in quello previsto per il 2019 – non è mai stato modificato il comma 74 dell’articolo 1 della legge 190/2014, secondo cui il regime cessa di avere applicazione dall’anno successivo a quello in cui, a seguito di accertamento divenuto definitivo, viene meno «la condizione di cui al comma 54» (superamento della soglia di ricavi o compensi) o «si verifica taluna delle fattispecie indicate al comma 57» (che elenca diverse cause di esclusione, tra cui ad esempio il controllo diretto o indiretto di una Srl che svolge attività direttamente o indirettamente riconducibili a quelle svolte dal contribuente nel regime). Non solo la legge è rimasta invariata. Nelle circolari di riferimento che si sono succedute nel tempo, il commento a questo comma 74 è sostanzialmente rimasto inalterato. Ricordiamo come nel paragrafo 4.2.2 della circolare 17/E del 2012, nonché nel paragrafo 3.3 della circolare 10/E del 2016, e infine nel paragrafo 3.4 della circolare 9/E di quest’anno, l’Agenzia sia stata nel vero senso della parola “avara” di nuove e ulteriori delucidazioni. Nel caso in cui l’accertamento riguardi un maggiore imponibile in una determinata annualità (ad esempio, ricavi accertati di 80mila anziché 60mila euro), la decadenza si estenderà inizialmente solo al periodo d’imposta successivo a quello oggetto di controllo. Viceversa, rispetto alle altre cause ostative – si pensi ad esempio al caso in cui l’attività del contribuente sia rivolta all’ex datore di lavoro – l’Agenzia potrebbe rilevarle non solo nel primo periodo d’imposta oggetto di accertamento, ma anche in quelli successivi, creando una serie di periodi d’imposta in relazione ai quali non era possibile aderire al regime. L’esclusione dal regime avrebbe quindi una durata minima di un biennio (l’anno dell’accertamento e quello successivo) che comporterebbe ai fini Iva la determinazione dell’imposta dovuta, nonché una rideterminazione reddituale. Diventa allora centrale la disposizione – a volte trattata come norma marginale – di conservazione e numerazione delle fatture di acquisto, come precisato al paragrafo 4 della circolare 9/E del 2019, perché potrebbe rivelarsi utile in caso di accertamento e soprattutto nel periodo d’imposta successivo a quello accertato. Questo obbligo secondario è nuovamente ribadito al paragrafo 4.2 della medesima circolare, dove l’Agenzia afferma che «i contribuenti sono tenuti a conservare i documenti emessi e ricevuti, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 22 del Dpr 600 del 1973». Come dire: la semplificazione di tenuta contabile certamente esiste, ma vi è l’obbligo di conservazione e numerazione delle fatture passive ricevute. Vero è che i forfettari non hanno l’obbligo di conservazione digitale delle fatture passive. Ma, alla luce delle considerazioni precedenti, ogni contribuente dovrà valutare se non sia più agevole la conservazione tramite la procedura digitale che una volta attivata dovrebbe assolvere all’obbligo di conservazione delle fatture passive ricevute.