Ricorso per cassazione di 65 pagine: inammissibile perché non chiaro né sintetico

In un procedimento di reintegra nel possesso di un immobile in seguito ad un asserito spoglio, il gravame proposto dal soccombente viene dichiarato inammissibile, in quanto poco intellegibile e non specifico. Lo stesso accade in Cassazione, ove la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 7600 del 16 marzo 2023, ribadisce che l’inosservanza del dovere di chiarezza e sinteticità espone il ricorrente al rischio della declaratoria di inammissibilità. Nel caso di specie, il ricorso è estremamente lungo e disorganico e gli ermellini affermano che «i motivi sono formulati in maniera farraginosa, disordinata, confusa, con una prosa involuta, difficilmente comprensibile, appesantita da continue e ridondanti ripetizioni [...]». La violazione dei succitati canoni redazionali pregiudica l’intellegibilità delle questioni sottoposte al vaglio dei giudici, rendendo poco perspicua l’esposizione dei fatti e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, in tal guisa, violando l’art. 366 comma 1 numeri 3 e 4 c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis). Per completezza, si ricorda che, il principio di chiarezza e sinteticità, contenuto nel Codice del processo amministrativo (art. 3 c. 2 d. lgs. 104/2010) e richiamato dalla pronuncia in commento, è stato inserito anche nel Codice di procedura civile con la cosiddetta “Riforma Cartabia”. L’ultimo periodo dell’art. 121 c.p.c., introdotto dal recente intervento normativo, recita “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” e i medesimi canoni redazionali sono previsti, a pena di inammissibilità, per la redazione del ricorso per cassazione (vedasi il novellato art. 366 c.p.c.). La disposizione che si occupa del contenuto del ricorso per cassazione (art. 366 c. 1 numeri 3 e 4 c.p.c.), nel testo applicabile al caso di specie, dispone che l’atto debba contenere l'esposizione sommaria dei fatti della causa e i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano. La cosiddetta “Riforma Cartabia” ha inteso attribuire grande rilievo ai canoni di chiarezza, sintesi ed essenzialità. Infatti, la nuova versione dell’art. 121 c.p.c., ora rubricato “Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti”, ha introdotto nel processo civile il principio di sinteticità degli atti. Il novellato art. 366 c.p.c., attualmente vigente, postula come requisito necessario del ricorso per cassazione la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi; nonché la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano. D’altronde, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che «la coerenza di contenuti e la chiarezza di forma costituiscono l'imprescindibile presupposto perché un ricorso per cassazione possa essere esaminato e deciso. E ciò non solo per il nostro ordinamento, ma in tutte le legislazioni degli ordinamenti economicamente avanzati» (Cass. 9996/2020). Il legislatore, nel recepire tale insegnamento, ha inserito nel rito civile un principio già espresso nel processo amministrativo (art. 3 c. 2 d. lgs. 104/2010). L’art. 366 c.p.c. contiene un “modello legale” di come debba essere redatto l’atto e l’inosservanza dello stesso rende il ricorso inammissibile. Sul punto è intervenuta, da ultimo, la Suprema Corte nella sua più autorevole composizione (Cass. SS. UU. 37552/2021), affermando che il ricorso vada redatto osservando i principi di chiarezza e sinteticità espositiva. Nell’atto, devono essere indicate le questioni di fatto e di diritto poste a fondamento delle censure sollevate. Al giudice di legittimità deve essere presentata una perspicua e sintetica rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria “e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c.”. L’inosservanza di tali doveri può portare ad una declaratoria di inammissibilità del ricorso solo nel caso in cui l’impugnazione contenga un’esposizione farraginosa dei fatti oppure pregiudichi la comprensibilità delle censure sollevate in relazione alla sentenza gravata, giacché, in tal guisa, sono violati i requisiti stabiliti dall’art. 366 c. 1 numeri 3 e 4 c.p.c. Per quanto qui di interesse, la norma applicabile ratione temporis richiedeva a pena di inammissibilità: - l'esposizione sommaria dei fatti della causa (n. 3); - i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, secondo quanto previsto dall'articolo 366-bis (n. 4); - la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda (n. 6). Per completezza espositiva, si ricorda che il vigente art. 366 c.p.c. prevede come requisiti del ricorso sempre a pena di inammissibilità: - la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso (n. 3); - la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano (n. 4); - la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il motivo si fonda e l'illustrazione del contenuto rilevante degli stessi (n. 6). La violazione dei canoni redazionali sopra esposti pregiudica la comprensibilità delle questioni sottoposte al vaglio del giudice di legittimità. In tal senso, la giurisprudenza è costante nell’affermare che l’inosservanza del dovere di chiarezza e sinteticità espone il ricorrente al rischio della declaratoria di inammissibilità (Cass. 17698/2014). Nel caso di specie, gli ermellini hanno rilevato come il mancato rispetto dei succitati principi abbia reso l’atto di difficile comprensione, farraginoso, disorganico, non perspicuo. Infatti, sono risultate oscura l’esposizione dei fatti e confuse le censure sollevate in merito alla sentenza impugnata, ponendosi in tal modo in contrasto con l’obiettivo del processo «volto ad assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa (Cost., art. 24), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (Cost., artt. 111, comma 2, e 6 CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui» (Cass. 8425/2020). Per tutte le ragioni sopra esposte, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso ed enuncia il seguente principio di diritto: «In tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall'art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, non già per l'irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l'intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c.» (ex plurimis Sez. 5, Ord. n. 8009 del 2019).

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