Attenzione al lessico che si utilizza in ufficio in presenza dell'altro sesso perché può costare il posto di lavoro. La Corte di Cassazione, sentenza n. 14500 del 28 maggio 2019, ha infatti respinto il ricorso di un ex quadro aziendale contro Versalis, la società chimica di Eni, che nel 2016 lo aveva licenziato «per aver proferito frasi di natura erotico-sessuale», utilizzando mezzi aziendali, «ossia nel corso di due telefonate effettuate alla presenza di una collega». In primo grado, il tribunale di Milano accogliendo la domanda del dipendente aveva annullato il licenziamento e condannato la società alla reintegra. La Corte di appello, nel 2018, aveva però mutato il verdetto accordando al funzionario soltanto la tutela risarcitoria. Il giudice di secondo grado infatti accogliendo il reclamo della società aveva rilevato che i fatti «non potevano ritenersi integrare gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo» ma che non potevano «nemmeno sussumersi - considerata la loro peculiarità, reiterazione ed unitarietà - nella previsione delle fattispecie punite con la sanzione conservativa», previste dall'art. 39 del Ccnl Industria chimica. E conseguentemente, applicando il comma 5 dell'art. 18, legge n. 300 del 1970, aveva dichiarato risolto il rapporto e condannato il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria. Infatti, chiarisce la Cassazione, «solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell'art. 18 novellato». Non è invece consentito al giudice «in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi o dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare». Nel caso specifico, per come ricostruito nelle fasi di merito, il ricorrente «recatosi per la prima volta nel suo nuovo ufficio ove era stato trasferito, in presenza di una collega di lavoro con la quale non aveva avuto in precedenza alcuna particolare frequentazione e confidenza, ha, in un breve lasso di tempo, utilizzando anche i mezzi aziendali e reiterando la propria condotta per ben due volte, proferito espressioni di natura erotico-sessuale, del tutto incurante di urtare la sensibilità e la sfera dei valori, in quanto persona ed in quanto donna, dell'unica collega di lavoro presente in quel momento con lui nell'ufficio comune». Un comportamento che secondo la Corte distrettuale non può rientrare tra quelli puniti con sanzione conservativa dall'art. 39 del Ccnl: utilizzo in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali, mancanze recanti pregiudizio alla persona, alla disciplina, alla morale o all'igiene. Ma la Corte ha anche ritenuto ingiustificato il licenziamento in quanto diretto a sanzionare una condotta «senz'altro grave ma che non integrava, in considerazione della assenza di precedenti disciplinari, un inadempimento di notevole gravità come richiesto dall'art. 2119 cod. civ., con conseguente applicazione del comma 5 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970».