La legge di Bilancio 2020 ha riaperto (verrebbe da dire: come da tradizione) la possibilità di rivalutare il costo fiscalmente rilevante delle partecipazioni e dei terreni posseduti da persone fisiche, società semplici ed enti non commerciali. Il relativo meccanismo applicativo è quello ormai ampiamente sperimentato, il cui nuovo riferimento temporale è il prossimo 30 giugno, data entro la quale dovrà essere redatta (e giurata) la relativa perizia di stima e corrisposta la prima (o unica) rata dell’imposta sostitutiva fissata, unitariamente per tutte le fattispecie, all’11%. Di fronte a questa rinnovata possibilità si (ri)propongono quindi per i contribuenti le valutazioni di convenienza nello sfruttare una opportunità che, da sempre, pur in termini via via meno convenienti, consente un’interessante pianificazione degli assetti impositivi sottesi alla successiva cessione dei beni rivalutati. Quando si tratta di partecipazioni, va però considerata anche la possibilità che questa pianificazione venga considerata “abusiva” da parte dell’Amministrazione finanziaria. Si tratta di una prospettiva (prima abbastanza trascurata) che scaturisce dall’orientamento che l’Agenzia delle Entrate ha recentemente assunto rispetto alle operazioni di riassetto proprietario delle società che, in forma più o meno articolata (dal family buy out ad altre forme di recesso “atipico”), garantiscono a una parte dei soci di uscire dalla compagine monetizzando il loro investimento attraverso le risorse finanziarie della stessa società. In simili contesti, quando la partecipazione “monetizzata” era stata precedentemente rivalutata, sembra scattare (quasi in automatico) il sospetto di un vantaggio fiscale indebito, come dimostrano i contenuti del principio di diritto n. 20 del 23 luglio 2019 e delle risposte ad interpello n. 341 del 23 agosto 2019 e n. 537 del 24 dicembre 2019. Senza addentrarsi sui casi specifici trattati in questi precedenti, la domanda che deriva dalla loro lettura è: quando la cessione di partecipazioni precedentemente rivalutate può configurare una fattispecie di abuso del diritto? D’impatto la risposta sembrerebbe: mai. Ciò nella considerazione per cui tutti i meccanismi normativi di aggiornamento del costo fiscale di un bene, specie quando siano, come nel nostro caso, anche “prenotativi” (posso cedere le partecipazioni a febbraio sul presupposto della rivalutazione che perfezionerò a giugno) hanno insito un “legalizzato” risparmio di imposta. Non è però questa la risposta corretta, così come non lo è quella (di opposto segno) che si legge (pur secondo diverse sfaccettature) nei precedenti di prassi prima ricordati. Come sempre in questi casi, la verità sembra collocarsi in una posizione “intermedia”, che si può individuare avendo come riferimento sistematico il contenuto dello stesso art. 10-bis della legge n. 212/2000. Tale norma, impone, infatti, che una fattispecie possa considerarsi abusiva solo se, congiuntamente, si riscontra: a) la realizzazione di un vantaggio fiscale “indebito”, costituito da “benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario”, b) l'assenza di “sostanza economica” dell'operazione o delle operazioni poste in essere, consistenti in “fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, c) l’essenzialità del conseguimento del “vantaggio fiscale”. L’assenza di una sostanza economica dell’operazione oggetto di considerazione, quand’anche vi sia, non è, peraltro, da sola sufficiente a qualificare la stessa come abusiva, dovendosi a tal fine indagare anche la ratio della norma tributaria che si ritenga “abusata”. Lo si ritrae dal comma 2 dello stesso art. 10-bis in base al quale la condotta posta in essere dal contribuente anche se è priva di sostanza economica, non è abusiva se il vantaggio fiscale che il medesimo consegue non contrasta con la finalità delle previsioni delle quali si è beneficiato. Su questo punto si gioca la risposta alla domanda che ci siamo fatti. La ratio delle norme sulla rivalutazione facoltativa delle partecipazioni mediante pagamento dell’imposta sostitutiva risiede, invero, nella volontà del legislatore di favorirne la circolazione, assicurando, d’altra parte, un gettito immediato all’Erario. La conseguenza che ne discende è chiara: se le partecipazioni, alla fine, “circolano”, assecondando magari (anche) il risultato negoziale che i contribuenti si erano proposti (ad esempio il riassetto proprietario della società) nessun vantaggio realizzato (anche dipendente dalla precedente rivalutazione) può essere considerato indebito, a nulla rilevando (proprio per la prevalenza del risultato finale che la norma stessa voleva favorire) il fatto che una parte delle risorse finanziarie necessarie per chiudere l’operazione provengano (o siano garantite) dalla stessa società. Il che, sotto la correlata prospettiva, significa che la rivalutazione seguita dalla cessione della partecipazione (rivalutata) integra un abuso solo quando, senza implicare una modifica del rapporto partecipativo, consente una (conveniente) distribuzione di riserve che, altrimenti, avrebbe scontato il regime di tassazione dei dividendi. Insomma, si rivaluta per cedere non per trasformare la percezione di un utile in capital gain. Se questo è vero, occorrono apprezzamenti meditati che evitino conclusioni “drastiche”. Così, se è vero che le partecipazioni devono infine circolare, questo non vuol dire, ad esempio, che qualsiasi caso di acquisto di azioni proprie cedute alla società da coloro che le avevano rivalutate integri una ipotesi elusiva, ma solo che dovrà indagarsi in tali ipotesi quale sia la ragione e la finalità dell’operazione, che risulterà non contestabile quando proiettata ad assicurare (anche in prospettiva) il trasferimento della partecipazione (come potrebbe accadere se l’acquisto di tali azioni fosse finalizzato alla realizzazione di futuri programmi di stock option o di coinvolgimento di nuovi soci).