Nella base imponibile di una persona fisica ai fini contributivi si tengono presenti esclusivamente le somme legate a un'attività lavorativa e non gli eventuali utili derivanti da quote di partecipazione in alcune aziende. Lo precisa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23790 del 24 settembre 2019. Nel caso concreto l'Inps aveva preteso maggiori contributi da un vice presidente di Cda di una spa proprio in virtù di partecipazione in alcune aziende e proprietario di altre quote di minoranza. Secondo la Corte territoriale l'espressione "titolarità dei redditi di impresa ai fini Irpef" deve essere intesa contrariamente alla tesi dell'Inps come riferita al solo redditi d'impresa denunciato ai fini Irpef per l'anno solare al quale i contributi si riferiscono purchè derivanti dall'attività d'impresa che dà titolo all'iscrizione alla Gestione Commercianti. Ne consegue - secondo la Corte d'appello - che gli utili derivanti dal solo fatto di essere soci di società di capitali non rientrano nella nozione di reddito d'impresa ai fini contributivi, per cui la pretesa del loro cumulo avanzata dall'Inps era del tutto infondata. Quindi, analizzando anche il quadro giuridico di riferimento, appare con chiarezza che per i soci di società commerciali la condizione essenziale per fare scattare l'obbligo contributivo nella gestione Artigiani/Commercianti è quella di partecipazione personale al lavoro aziendale. Pertanto la sola percezione di utili derivanti da una mera partecipazione (senza lavoro) in società di capitali non può far scattare il rapporto giuridico previdenziale, atteso che il reddito di capitale non rientra tra quelli costituzionalmente protetti, per il quale deve farsi carico della libertà dei bisogni (tra i quali rientra il diritti alla pensione al termine dell'attività lavorativa).